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Come nasce un “Dantedì”: intervista a Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano è uno scrittore e giornalista, laureato in Filologia romanza, autore di romanzi, inchieste, racconti e poesie. Sulle pagine del “Corriere della Sera” si occupa di letteratura, cultura e società. Dai suoi editoriali è nata un’idea di cui si sta parlando molto nell’ambiente accademico italiano: il Dantedì.

Ci può spiegare, in breve, in che cosa consiste questa proposta? E perché secondo lei è importante?

Mi è parso paradossale che uno dei maggiori scrittori della tradizione occidentale, riconosciuto come un modello e un maestro irrinunciabile ovunque, padre della lingua italiana, ispiratore di scrittori di ogni lingua, non avesse una giornata in suo onore. È l’uovo di Colombo: sono passati quasi settecento anni dalla sua morte e nessuno ha mai pensato a dare a Dante quel che hanno da sempre i grandi scrittori come Shakespeare, Cervantes, Goethe, Joyce. Si tratterebbe di festeggiare l’autore della Commedia a ogni livello: nelle scuole, nei teatri, nelle biblioteche, nelle piazze, nelle librerie… Come ha detto Baranski, Dante ha fatto tutto da solo, è stato un ottimo autopromotore attraverso la sua opera, attento al lettore di ogni grado e livello culturale: per questo è diventato un brand. È presente più di chiunque altro non solo nelle bibliografie specialistiche, ma nella fantascienza, nei fumetti, nei romanzi noir, nel cinema, nei videogame, nelle insegne dei locali pubblici…

Qual è stata la reazione degli accademici e delle istituzioni?

È stato letteralmente straordinario l’entusiasmo e la disponibilità sia delle persone comuni, che hanno scritto per esprimere la loro adesione e gioia, sia degli enti danteschi, sia dei centri di studio (Accademia della Crusca in primis), sia del Comitato promotore del Settecentesimo. Inoltre il Dantedì ha avuto un’eco sorprendente anche nella politica: il ministro degli Esteri Moavero ha dato la sua adesione ed è stata avviata una mozione parlamentare per farne un disegno di legge. Non c’è voce di studioso che sia stata contraria, anzi. Il che fa sperare che la tradizionale (un po’ becera) conflittualità tra scuole di dantisti venga superata nel nome del Dantedì. Solo la stampa concorrente del “Corriere” ha mostrato qualche ironia acida sull’iniziativa, ma dettata in tutta evidenza da gelosia.

Com’è andato l’incontro del 4 luglio alla Fondazione Corriere?

Molto bene. Ha raccolto un pubblico notevolissimo in un periodo non proprio favorevole. Luca Serianni, Claudio Marazzini, Alberto Casadei hanno offerto punti di vista diversi ma sempre molto ricchi e vivaci. È intervenuto anche il direttore del “Corriere” Luciano Fontana, che ha assicurato il sostegno del giornale a questa iniziativa nata da alcuni miei editoriali sull’argomento.  

Quali sono i prossimi passi, ora? Sono previsti altri incontri e/o altre iniziative a riguardo?

Le iniziative possibili sono numerose. Intanto, si parlerà del Dantedì a Ravenna negli incontri del 13 e 14 settembre di Dante2021. Poi so che anche l’Associazione degli Italianisti discuterà pubblicamente della proposta, a cui ha già aderito con grande partecipazione.

Com’è nato, per lei, l’amore per Dante?

Ho avuto uno straordinario professore al liceo di Lugano: si chiamava Giovanni Orelli, ed era capace di trasmettere l’entusiasmo per la letteratura. Dante era un suo cavallo di battaglia, riusciva anche ad affrontare questioni critiche complicate, a parlare di Auerbach e di Eliot, di letture strutturaliste, di Contini senza mai annoiare. È stata una lezione bellissima su come un docente riesca a far amare un autore attraverso la sua stessa passione. Una enorme fortuna.

Il Dantedì ha le “carte in regola” per diventare un evento internazionale?

Dante è per definizione una personalità internazionale. La Società Dante Alighieri ha già raccolto adesioni attraverso le sue innumerevoli sedi estere. È significativo che il Ministero degli Esteri abbia dato per primo la sua adesione alla proposta.  Ci sono stati anche i pronunciamenti arrivati dalla Svizzera, compreso il discorso della presidente del Consiglio nazionale elvetico, cioè del parlamento federale. All’estero sentono Dante come incarnazione della nostra identità nazionale e padre della nostra lingua. Due personalità molto qualificate come René de Ceccatty e Zygmunt Baranski hanno auspicato che il Dantedì venga festeggiato anche fuori dall’Italia.

Con questa intervista, le sue parole raggiungeranno lettori sparsi un po’ tutto il mondo, che amano la lingua e la cultura italiana almeno quanto noi. Ha un messaggio per loro?

Nel Convivio Dante se la prende con “li abominevoli cattivi d’Italia che hanno a vile questo prezioso volgare”: accusa gli italiani di essere pusillanimi nel non considerare la propria lingua all’altezza delle altre straniere. Il magnanimo ha invece l’orgoglio di considerare se stesso per quello che vale: anche noi dobbiamo essere magnanimi nel promuovere con il giusto orgoglio un autore eccelso come Dante. Il che significa essere magnanimi con noi stessi, avere la giusta considerazione di noi stessi e della nostra cultura.

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